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292 la vita italiana


l’indifferenza superba e dell’audace cinismo, oppure figure scialbe che null’altro albergano nel cervello fuorchè la scienza della moda e nel cuore qualità passive ed infruttuose.

Finalmente, sovrapponentisi con insistenza a tutte le altre, nella luminosa visione, gli sì imposero nella mente le immagini elette di due donne, di quelle due che in un’intima, arcana, ingiustificata speranza, egli, per desideri assai diversi ma d’un’eguale intensità, avrebbe volute autrici della lettera, ad onta di certe frasi contraddicenti della lettera istessa. Una era la donna ch’egli avrebbe bramata come amante, l’altra la fanciulla che avrebbe scelta volentieri a sua sposa, Teodora di Faucigny e Clara di Samoclevo. Quale, quale delle due poteva essere la scrivente?... quale?...

La contessa di Faucigny, parigina d’origine, era la moglie giovanissima d’un ex-diplomatico belga che l’aveva sposata in seconde nozze e in un’età piuttosto matura; stanco d’’errare dall’una all’altra capitale e appassionatissimo delle scienze storiche, il conte aveva troncato prima del tempo la sua carriera ed era venuto a dimorare parte dell’anno a Roma, città prediletta ai suoi studi.

Teodora non aveva figli e il marito si dava premura di farle dimenticare una sì grave privazione, circondandola di tutto il benessere materiale, di tutti gli allettamenti dello Spirito che possono appagare i gusti e i bisogni d’una donna nata e cresciuta in mezzo alle raffinatezze del lusso e anche a quelle dell’intelletto; ma s’egli era riuscito a farle impiegar bene il tempo, non aveva però trovato i mezzi di colmare un immenso vuoto, non aveva potuto impedire che nelle amarezze di quel rimpianto, l’inquieta fantasia della sua giovane sposa non divagasse nel mondo dei sogni.

Faucigny era buono, ma noncurante di certe fisime muliebri; gentiluomo in tutto ciò che riguarda l’educazione e la cortesia dell’animo, egli aveva chiuso il suo libro alla pagina dell’amore, come ad un sentimento inopportuno il quale non facesse più parte che di giovanili memorie.

Teodora s’era accorta troppo tardi, che, in un matrimonio di convenienza, il fare assegnamento sulla sola ragione è un errore assai grave; tuttavia, compresa da un verace affetto, d’indole quasi figliale per suo marito ella s’era serbata sempre onesta dinanzi ai pericoli d’una vita che si componeva in gran parte di balli, di pranzi e ricevimenti, di apparizioni ai teatri, di concerti, serate e altri ritrovi mondani in cui non mancava di condursi con quel tatto finissimo che le era innato e che, anche per l’addietro, nelle comparse ufficiali, a Valdemaro di Faucieny era sempre tornato prezioso.

Ella aveva una fisonomia molto individuale, come certi tipi di Leonardo

il volto d’un pallore caldo,

appena soffuso d’incarnato, s’impastava colla massa dei capelli, nè biondi nè castani, ma di quel fulvo ardente che raggiunge l’ideale nel pittorico. La bocca era larga, ma d’un disegno corretto, larghi gli occhi e più volgenti al grigio che all’azzurro, ma vellutati di nero. Senza essere molto bella, Teodora portava in sè la seduzione indefinibile che possono dare l’amabilità e la grazia congiunte allo spirito e riflesse dalla più mobile delle fisonomie.

Ella doveva lottar sempre contro l’inassopito ardore della vergine sua anima tutta vibrante di passione oggettiva, e da questa battaglia segreta le derivava, alle volte, una specie di stanchezza triste, un abbattimento, un vago sentimentalismo, molto piacente agli uomini.

Fra tutti ella ne aveva osservato uno solo, e quell’uno se n’era accorto.

Il principe di Collalto la vedeva spesso: qualche volta osava cercarla, e gli era caro di conversare con quella signora intelligente