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potente ch’ella vinse il pericolo e, trionfando con efficacia sugli ostacoli, salvò il dramma. Se fu un successo lo dovetti in gran parte a lei e quando calò la tela io lo stesi ambe le mani, con un impeto di gratitudine ardente. Ella mi diede passivamente le sue, fredde come il gelo. Era smorta in viso, piangente, sopraffatta da un’emozione profonda.

— Credevo che non poteste nemmeno recitare, stasera — le dissi — quanto, quanto m’avete fatto soffrire, prima di darmi questa gioia!

— Io ho penato più di voi — ella rispose — è la vostra Eva che mi fa star male.

Quella sera stessa invitai gl’interpreti del mio lavoro ad una cena all’albergo Milano.

Nel pomeriggio avevo espresso ad Emilia quel mio desiderio di raccogliere gli artisti, quel bisogno di stare in mezzo a loro, chiedendole, timidamente, se non volesse prendere parte alla cena, ma ella, con mia sodisfazione, aveva ricusato, senza esitare. Quando la raggiunsi all’uscire del teatro era ancor più turbata di prima e chiusa in sè stessa. Non manifestava in alcun modo l’animo suo. La lasciai nel suo appartamentino, con la buona Eräulein Fruhman ch’era inorridita per il soggetto dell’«Eva Arnim», e non osando dire di più, mormorava ogni tanto fra sè:

Schrecklich, schrecklich!

La cena fu molto animata. Io sedevo accanto ad Irene, che s’era riavuta ma che serbava in