Pagina:Trattati d'amore del Cinquecento, 1912 – BEIC 1945064.djvu/99

Misera me, perché face’io ritorno ora a l’uno or a l’altro, né procaccio l’ultimo fine al duolo; e, lenta, faccio in dubbioso pensar tanto soggiorno? —

Mentre, disposta di morir, Corina cosí dicea, fu tanto il suo dolore, che, senza altro piú dir, se ne morio.

O felice desio d’alma divina! che pur usci da questo mondo fuore senza tosco, ferita o nodo rio.

Baffa. Era forse Corina il nome di questa giovane infelice?

Raverta. Non, signora, ma egli finse cosí. Udite appresso un madrigale:

Muore chi siegue Amore: egli è pur vero, né sol senza alma vive: o ne l’amato si trasforma, e dimora in crudo stato.

Né sol finisce il duolo acerbo e fiero con foco, ferro, laccio o con veneno, tutto ch’egli si sia arso, ferito, stretto e venenato.

Anzi par che si dia

negli ardor, piaghe, nodi e toschi spesso

al cor lena e vigore,

ché sempre ne’ martir dimora oppresso;

ma per soverchio amore

sen fugge l’alma, ed uno amante muore.

Baffa. Èccene altro de’ suoi?

Raverta. Credo che si, ma il capitano a me non ne disse altro. Udite poi ciò che segui dell’amato giovane. Il quale indi partito, credendo avere condotto a fine una grande impresa, avendo fatto, per sua cagione e per troppo amore, morire si valorosa giovane, palesò il tutto a quell’altra ch’egli oltramodo amava, forse credendo perciò farsele piú caro: onde tutto il contrario avenne. Perché, che se ne fosse cagione, da subito sdegno ed odio assalita, mai piú non gli volse parlare né alcuna sua ambasciata udire. Laonde egli per dolore infermò ed in pochi giorni parimente, per troppo amore, se ne mori. Cosi