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infinitamente si doleva e lo avea per male. Né contentandosi d’averle fatto essequie molto piú onorevoli che ’l grado di lei non meritava, non potendo patire di star senza lei, che meno cara non gli era morta che vivendo si fosse stata, fattala trarre della sepoltura ed imbalsamare il suo corpo, di continuo appresso di sé lo voleva e gli dormiva accanto, non altrimenti che se lo spirito fosse anco stato con quello...

Baffa. Mi fate ricordare dell’amor d’Artemisia, la quale si fece stanzia della sepoltura di Mausolo, suo marito, e cibo del beveraggio ch’ella avea fatto della polve dell’ossa di lui.

Raverta. Mi maraviglio che non facesse a modo, in tutto e per tutto, degli egizzi, se vero è quanto si legge di loro, i quali non solamente, imbalsamati i corpi morti, ne gli tengono seco a dormire, ma anco a mangiare alle sue tavole.

Baffa. Che? mangiano, i morti?

Raverta. Lascio pensare a voi. Si fanno anco servire di dinari, quando n’ hanno bisogno, sopra i corpi dei padri e dei fratelli, come noi faressimo sopra una gioia o altro pegno. E, se io vi narrassi l’altre opre che vi essercitano d’intorno, ben vi farei stupire.

Domenichi. Non è maraviglia, perché «piú regioni, piú usanze». 1 greci gli abbruciano, benché abbiano lasciato questo costume. I persi gli sepeliscono sotto terra, come anco noi facciamo. Gli indi gli mettono ne’ vasi di vetro, come fanno gli speciali le lumache.

Baffa. Né piú né meno.

Domenichi. Gli sciti gli mangiano.

Baffa. Come! che gli mangiano?

Domenichi. Cosi fanno.

Baffa. Per grazia, non me ne dite piú, ma seguite il vostro ragionamento, ch’io giudico questa invenzion piú favolosa che le narrazioni di Luciano non sono.

Domenichi. Anzi è verissima, e, quando vi piaccia, ve lo farò vedere.

Baffa. Non me ne curo.

Domenichi. Ma dove era io? ché piú non mi ricordo.

Trattati d’Amore dei Cinquecento.

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