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MEDEA 13

sorpresa della sua sensibilità pervertita. «Il solo Euripide — dice Patin, che dimostra una speciale predilezione per la Medea, e ne rileva con gran finezza i meriti eccelsi — ha osato guardare in faccia il terribile soggetto, e riprodurlo senza attenuazioni nella sua dolorosa spaventevole inverisimiglianza» (I, p. 175).

Ma qui, come nell’Alcesti, la prova scenica salva e giustifica tutto. Come Admeto, cosí Medea, che alla semplice lettura sembra intollerabile, nella realizzazione scenica, non solo è accettata dagli spettatori, ma suscita l’interesse, e, per quanto sembri paradossale, in qualche momento, la simpatia. Le molte repliche di Siracusa, la commozione e il plauso di spettatori adunati a ventine di migliaia, non possono lasciar dubbî in proposito. In verità, avviene delle opere d’arte, e massime d’arte scenica, come delle creature della vita. In esse è nascosta una forza misteriosa ed inafferrabile, che entra in funzione solo quando l’opera assurge alla sua piena e perfetta realizzazione — in questo caso la rappresentazione. E vano riesce cercarla sulle fredde carte, dove l’opera è confinata in muti simboli, quasi in letargo.

Ciò non significa, naturalmente, che la critica debba senz’altro abdicare. Accanto ai fattori irrazionali, altri ne esistono che l’analisi riesce a scoprire, e senza eccessiva difficoltà.

L’attenuante della disumana ferocia di Medea, è data da Giasone. Euripide eccelleva nel dipingere l’odiosità d’un carattere; ma in Giasone ha superato sé stesso. Giasone, nella prima parte della tragedia, riesce quasi piú odioso del Menelao dell’Andromaca. Questi, se non altro, non ha la ipocrisia di Giasone; e poi, Andromaca è sua nemica. Ma Giasone si trova di fronte alla donna che ha perduto tutto per amore di lui, e che è madre dei suoi figli. Eppure, non ha un solo brivido di commozione dinanzi al suo disperato