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8 EURIPIDE

trasti, vita d’ogni azione drammatica. E cosí pure, manca — e questo non è davvero un male — lo sfoggio dialettico, perché al ragionamento sofistico di Giasone Medea neppur si degna di rispondere: mancano gli elementi comicizzanti: mancano, tranne qualche lampo fuggevole, quegli sprazzi di luce che sogliono aprirsi frequenti nei cori euripidei, come a rendere meno grave la tetra compagine tragica: mancano la ricchezza e la varietà metrica: manca, insomma tutto ciò che costituisce il carattere e il fàscino dei grandi drammi euripidei. Non c’è che Medea. E c’è tutto.

La Medea è del 431, ed Euripide aveva incominciata la sua carriera con le Pelíadi, il 455. Da ventiquattro anni, dunque, lottava nell’agone dell’arte, e dell’arte drammatica, che con la continua necessità del cimento pratico costringe gli artisti a piú pronta maturazione. Maturissimo si dimostra Euripide già nell’Alcesti, che precede di sette anni la Medea. E, d’altronde, egli appartenne a quella famiglia di poeti che non perdono mai le basi razionali (tale, fra i moderni, il Goethe), che rimangono sempre padroni dei proprii mezzi, e vanno perciò immuni dalle disuguaglianze, le incertezze e le inesplicabili deficienze degli artisti puramente intuitivi. La sobrietà della Medea, che sembra confinare con l’aridità, non si dovrà dunque attribuire ad inesperienza né a minore capacità di realizzare: essa è certamente voluta. Euripide, che in ogni dramma soleva proporsi un nuovo problema artistico, nella Medea ha tentata la concentrazione e la effettiva riduzione di tutti gli elementi della tragedia in un solo personaggio: Medea. E Medea sta sulla scena dal principio alla fine. E, se badiamo, i suoi contatti con gli altri personaggi sono piú apparenti che reali: o, per lo meno, sono, dal lato strettamente