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terventi soprannaturali, che non sfrutta risorse retoriche, ma sgorga dalla passione, e dalla passione deriva direttamente, uno per uno, gli accenti. Nel superstite teatro dei Greci, non ne troviamo un altro cosí violento, e cosí vero. Ed è, per quanto possiamo vedere, un colore nuovo.

Come nel primo episodio patetico, cosí qui la violenza drammatica è spinta ad un culmine quasi insostenibile. Qui piú che altrove occorreva abilità per distogliere lo spirito degli spettatori verso nuove orientazioni spirituali. Il poeta raggiunge questo scopo, prima di tutto con un espediente tecnico, se non assolutamente nuovo, certo assai raro: allontana il coro dall’orchestra, facendo che segua il corteo funebre d’Alcesti1. E, scancellata cosí ogni traccia dell’odiosa vicenda, e ottenuta la solitudine scenica, vi lancia arditamente l’episodio comico del servo e di Ercole.

Comico, nella prima parte, e di una comicità che, con l’arrivo di Ercole ubriaco, e col suo predicozzo al servo, rasenta il buffonesco. Ma anche qui, con trapasso che non è piú neanche transizione, ma urto bruschissimo, muta, anche una volta, colore. Basta un piccolo urto a spezzare una grande anfora, e a sperderne il contenuto. Ad una parola del servo, che svela infine la verità, i fumi del vino si dissipano d’un tratto, ed Ercole torna eroe, eroe come non l’avevamo finora visto, né piú mai lo vedremo, nel canto dei poeti. Le sue parole hanno una risonanza quasi soprannaturale2. E alle parole seguono, fulminei, i fatti. Ercole si avventa in corsa, per affrontare il Dio della morte.

  1. Nel superstite teatro dei Greci troviamo un simile allontanamento solo nelle Eumenidi e nell’Aiace.
  2. Anche qui ha valore quasi definitivo la prova scenica. In tutte le rappresentazioni, questo brano di Ercole trascinò costantemente gli spettatori a delirante entusiasmo.