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Siamo stati dunque rapiti alle piú alte sfere della finzione mitica. Ma súbito poi, con un distacco brusco, si svolgono una serie di scene di perfetta umile umanità. Tutti i cittadini di Fere si raccolgono, pieni d’angoscia, dinanzi alla reggia, a chiedere notizie della moribonda Alcesti, la regina buona, la madre di tutto il popolo. Queste scene sono varie, ma ricevono impronta d’unità dal carattere di compianto, e sono disposte e proporzionate in guisa da formare una gran progressione. Incominciano le lamentele del popolo, simboleggiato dal coro, diviso in molte parti. Compiuta questa preparazione generica, esce dalla reggia un’ancella, che imprime alla doglia una direzione precisa e piú intensa, narrando gli ultimi momenti d’Alcesti. Alla sua partenza, il dolore del popolo, confermato ed aumentato, prorompe in accenti anche piú accorati, e prepara la terza parte, l’apparizione di Alcesti moribonda con lo sposo e i figliuoletti. Qui, col delirio, e poi le esortazioni e le preghiere d’Alcesti, e i disperati gemiti e le invocazioni e le proteste di Admeto, e le risposte del coro, con un’armoniosa mirabile pluralità di voci, la progressione sale al vertice massimo, segnato dalla morte d’Alcesti e dal pianto disperato del pargoletto Eumelo. Poi, come avviene sempre nelle opere d’arte dei Greci, i quali rifuggivano, tanto nel piano generale quanto nelle singole parti, dai finali bruschi, segue un’attenuazione. Dal culmine della commozione, una battuta del coro conduce ad una conclusione d’una tristezza infinita ma serena. Posta tregua al vano pianto, il re impartisce ordini perché la memoria di Alcesti sia degnamente onorata. Poi la salma è condotta via, la visione soave e straziante dilegua, e i suoi ultimi echi si perdono nelle note, di soavità divina, del peana funebre.

Il dramma sembra giunto al suo termine, sia nell’ordine convenzionale e canonico, perché con la morte del protagonista si chiudeva ordinariamente la tragedia, sia in un ordine