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alle ancelle, la prende a parte. Riassumo un po’ il dialogo, perché meglio ne risulti l’essenza, velata un po’ — molto poco — da un certo spumeggiamento di fraseologia poetica.

Ione. — Vieni qui. Voglio dirti una cosa all’orecchio. È proprio vero che son figlio d’Apollo? Oppure l’hai inventata tu, per nascondere un tuo fallo giovanile?

Creusa. — No, no, sei proprio figlio del Nume.

Ione. — E come va che questi ha detto invece che sono figlio di Xuto?

Creusa. — No, ha detto che ti dona a lui come figlio adottivo.

Ione. — La cosa non mi convince.

Creusa. — Se ti dichiarasse mio figlio, tu non potresti ereditare il trono d’Atene, come invece potrai se passi per figlio di Xuto.

Ione. — Non sono ancor persuaso. Adesso entro nel tempio, e interrogo lo stesso Apollo.

Questo si chiama andar coi piedi di piombo.

E allo spirito critico e allo scetticismo si aggiunge una terza nota assai caratteristica. Quando Ione ha saputo d’essere sangue di re, e Xuto vuole ricondurlo ad Atene, obietta (al solito riassumo): «Le cose sono assai differenti viste da lontano e viste da vicino. Io sono bastardo, e tu, mio padre, forestiero; e già per quest’ultimo fatto in Atene non mi ci troverò troppo bene. E poi, la sposa tua, che non ha figliuoli proprii, non mi prenderà in uggia? Vivrei in sospetto continuo. Meglio questa vita tranquilla, in cui posso fare ciò che mi aggrada».

Fuge rumores. Par proprio di sentire Orazio, e uno dei suoi elogi dell’aurea mediocritas.

Si potrà forse obiettare che queste tre note, e massime la prima, siano comuni anche ad altri personaggi euripidei: sicché la loro potenza di caratterizzare ne rimanga come affievolita, e

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