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TERZO ^289 gli antichi monumenti scoperti e illustrati, le contese su alcuni punti di lingua insorte tra’ letterati, il numero delle scuole e de’ maestri accresciuto in ogni parte d’Italia, tutto ciò fu d’incredibile giovamento alla perfezione della lingua latina, e agevolò agli scrittori la via per richiamarne l’antica maestà e bellezza. Alcuni furono in ciò scrupolosi oltre il dovere, e credendo di farsi rei di grave delitto, se avessero usata una voce non usata da Tullio, gittaron molte volte nel cercar di un’acconcia parola quel tempo che meglio sarebbe stato impiegato in più utili oggetti. E così suole avvenire che a un’estrema rozzezza succeda un’estrema delicatezza, finchè poscia ritornin le cose a un giusto equilibrio. Ma di ciò abbiamo altrove parlato a lungo (ti 2, Diss. prel.), nè fa d’uopo il ripetere ciò che già si è detto. Veggiam nondimeno che verso la metà, del secolo si facevan doglianze che la lingua latina fosse tra noi disprezzata e quasi dimenticata. Paolo Manuzio, scrivendo ad Andrea Patrizio, Italia vero nostra, dice egli (l. 4* cp. 36), in qua vigebant olim artes bonae... ita veterem illam quasi formam videtur amisisse, vix jam ut agnoscatur. E a Marco Antonio Natta: An nescis, scrive egli (l. 3, ep. 31), libros Latinos optimos veteres ita nunc jacere, ut pene sordium in genere putentur! vix jam Ciceronem ipsum, Caesarem, Salustium legi, a multis etiam ne legi quidem, plancque contemni? Ma il Manuzio, come ad altra occasione abbiamo osservato (par. 1), era uomo querulo oltremodo, nè deesi molta fede a tali doglianze. E certo noi abbiam vedalo che