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libro terzo 327

     Moverat ingenium totam cantata per Urbem
          Nomine non vero dicta Corinna mihi.

L. 4 Trist. el. 10.


Dunque in età già avanzata pagò egli la pena di quelle poesie oscene che giovane avea composte; e questo basta a farci conoscere che non furono esse la vera, o almen la sola cagione del suo esilio; poichè non avrebbe Augusto indugiato tanto a punirlo. La vera, o certo la principal cagione di esso convien dunque cercarla nel fallo ch’egli oscuramente accenna. Ma qual fallo fu questo? Osserviamo attentamente gli altri passi in cui Ovidio ne parla.


XXXII.Qual fosse il fallo di Ovidio, per cui principalmente fu esiliato.

XXXIII. Ovidio primieramente ripete l’origine della sua sventura dall’aver voluto troppo innoltrarsi nella familiarità co’ Grandi; perciocchè scrivendo ad un suo amico lo esorta a tenersene lungi, il che se avesse egli fatto, non sarebbe forse in esilio:

     Usibus edocto si quidquam credis amico,
          Vive tibi, et longe nomina magna fuge.
     Vive tibi, quantumque potes praelustria vita:
          Saevum praelustri fulmen ab arce venit.
     Haec ego si monitor monitus prius ipse fuissem,
          In qua debebam, forsitan Urbe forem.

Ib. l. 3, el. 4.

Dice in secondo luogo, che era bensì stato fallo ed errore quello per cui trovavasi in esilio, ma non già delitto, e da quel fallo non avea egli preteso di trarre vantaggio alcuno:

     Hanc quoque, qua perii, culpam scelus esse negabis,
          Si tanti series sit tibi nota mali.

Ib. l. 4, el. 4.