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no. Infine Rendona lo lasciò stringendosi nelle spalle.

La Ferlita non avea sonno, ma era affranto. I suoi nervi si contraevano penosamente, e sentivasi le tempia prese in una morsa gigantesca; gli si ripercuoteva penosamente dentro il cervello il rumore delle ultime carrozze e i passi rari che si udivano sotto le finestre; il caldo di quella notte di giugno lo spossava. In mezzo al grande stordimento della sua mente c’era un guazzabuglio confuso, doloroso, il passato, il presente, le vicende turbolenti della giovinezza, i ricordi più lontani e insignificanti, Nata, suo figlio, Firenze, Erminia, la chiesuola di Tremestieri, il viso che avea Rendona quando gli avea detto vedremo, Carlo che solcava il mare, il treno che sbuffava alla stazione di Acireale, tutte queste cose che si urtavano, che si arruffavano, che si confondevano insieme. In mezzo a quel turbinìo c’era sempre la figura di quell’inferma su cui teneva gli occhi fisi, tal quale la vedeva in quel momento, rivolta verso la finestra e col viso nell’ombra. Il suo pensiero rifaceva con-