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8 Capitolo 2 - La misura

siano quindi da considerare fondamentali, è la riproducibilità dei campioni e la precisione con cui è possibile il confronto diretto tra grandezze omogenee.

È emblematica a questo riguardo la storia dell’evoluzione delle unità di misura delle lunghezze: queste anticamente erano riferite a parti del corpo umano quali il braccio, il cubito (già usato dagli Egizi), il piede e la larghezza del pollice; ovvero delle medie di tali lunghezze su di un numero limitato di individui. L’ovvio vantaggio di una simile definizione è la disponibilità del campione in ogni tempo e luogo; l’altrettanto ovvio svantaggio è la grande variabilità del campione stesso, donde il ricorso dapprima a valori medi ed infine a campioni artificiali costruiti con materiali e accorgimenti che garantissero una minima variabilità della loro lunghezza, col tempo e con le condizioni esterne più o meno controllabili.

Così, dopo la parentesi illuministica che porto all’adozione della quarantamilionesima parte del meridiano terrestre quale unità di lunghezza (metro), e fino al 1960, il metro campione fu la distanza tra due tacche tracciate su di un’opportuna sezione di una sbarra costruita usando una lega metallica molto stabile; tuttavia le alterazioni spontanee della struttura microcristallina della sbarra fanno si che diversi campioni, aventi la medesima lunghezza alla costruzione, presentino con l’andar del tempo differenze apprezzabili dai moderni metodi di misura. Inoltre l’uso di metodi ottici interferenziali finì per consentire un confronto più preciso delle lunghezze, e condusse nel 1960 (come suggerito da Babinet già nel 1829!) a svincolare la definizione del metro dalla necessità di un supporto materiale macroscopico, col porlo uguale a 1’650’763.73 volte l’effettivo campione: cioè la lunghezza d’onda nel vuoto della luce emessa, in opportune condizioni, da una sorgente atomica (riga arancione dell’isotopo del Kripton 86Kr).

L’ulteriore rapido sviluppo della tecnologia, con l’avvento di laser molto stabili e di misure accuratissime delle distanze planetarie col metodo del radar, ha condotto recentemente (1984) ad una nuova definizione del metro, come distanza percorsa nel vuoto dalla luce in una determinata frazione (1/299’792’458) dell’unità di tempo (secondo); il che equivale ad assumere un valore convenzionale per il campione di velocità (la velocità della luce nel vuoto) ed a ridurre la misura della lunghezza fondamentale ad una misura di tempo. È implicita nella definizione anche la fiducia nell’indipendenza della velocità della luce nel vuoto sia dal sistema di riferimento dell’osservatore che dal "tipo" di luce (frequenza, stato di polarizzazione e così via); ipotesi queste che sono necessarie conseguenze delle moderne teorie della fisica.

Le misure di lunghezza hanno dunque percorso l’intero arco evolutivo, ed appare evidente come la complessa realtà metrologica odierna non sia più riflessa esattamente nella classificazione tradizionale di grandezze "fon-