Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
fosca | 89 |
Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia di questo peccato originale!
— Me ne era accorto, — proseguì egli intanto che io mi apparecchiava ad uscire — ma siccome non me ne dicevate nulla, non voleva forzarvi a farmi questa confidenza. Capiva che non era cosa da far venire il ruzzo di contarla. Quella volta che andaste a Milano, ella stette assai male, credeva che la morisse; ebbe un assalto di nervi terribile, poi si riebbe subito nel giorno che ritornaste. Ma spicciatevi, — aggiunse il dottore guardando il suo orologio — se farà d’uopo attenderete nella mia camera.
Uscimmo assieme. Dio sa in quale stato d’animo io mi trovava!
XXVII.
Mi convenne attendere due ore nelle stanze del medico, e per maggior cautela in un buio perfetto. Se non era che la luna era in quella notte piena e chiarissima, non avrei potuto distinguere certi ossicini e certi teschi di cui il dottore aveva ornato simmetricamente il suo caminetto, come di altrettanti ninnoli; e che in quel momento, e visti così in quella penombra, non era ciò che vi fosse di più adatto a mettere in calma il mio spirito, e a prepararmi a quello strano appuntamento.
Sentiva di là la voce fioca e dolce dell’inferma, e il cicalare sommesso del medico con suo cugino.
Era vicina la mezzanotte, allorché intesi Fosca dire alla sua cameriera:
— Mi sento bene, e ho bisogno di dormire, e di esser sola; va pure, e non venire se non ti chiamo.