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234 amore nell'arte


Ho amato anch’io una donna, una creatura non migliore e non peggiore delle altre, un essere vago e felice, quali ne incontriamo spesso nel mondo — esseri che sorvolano su tutto, che amano tutto, che spargono delle rose su tutto; che versano delle lacrime e non piangono, che sorridono e non gioiscono, che non potrebbero essere felici e lo sono. Si chiamava Regina, aveva vent’anni ed era vedova. Viveva sola, aveva blasoni e livree, aveva ammiratori ed amici, aveva arredi e palazzo da sultana, era superbamente bella e orgogliosa. L’aveva veduta e l’aveva segretamente ammirata, mi pareva che la sua avvenenza avesse sorpassato la bellezza di quel tipo immaginario che io portava meco nel cuore; mi pareva che il suo amore avrebbe dovuto colmare ad esuberanza quel vuoto che io sentiva in me da gran tempo. Volli ispirare dell’affetto e l’ottenni, volli smarrirmi nella mia passione e lo feci..., non ne ritrassi che amarezza e sconforti.

La vedeva ogni giorno lungo i viali cavalcare colla spigliatezza d’un giocoliere e coll’ardimento di una amazzone sorridere e pure atteggiarsi a mestizia. Era sempre sola, un palafreniere la seguiva da lontano; e quando io passava presso di lei mi fissava in volto gli occhi con espressione di affetto indicibile. Ne fui presto ammaliato; era il mio primo amore — il mio ultimo — mi vi abbandonai come un fanciullo.

M’incontrava con lei ogni giorno durante le sue passeggiate; e benchè non avessi osato o potuto dirle il mio amore, e benchè ella del paro mi avesse tutto taciuto, nessuno di noi due ignorava di essere amato, e non attendeva che l’occasione di accertarsene. Anche questa occasione venne. Io aveva dato una sera un concerto e vi era stato applaudito: il teatro era affollatissimo, l’uditorio silenzioso ed intento, io stesso agitato da una com-