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LIBRO SESTO 283

trattenne. Fraate in Sorìa, lasciata la vita dilicata romana, ove era avvezzo per tanti anni, e non potendo reggere quella dei Parti, si morì; ma Tiberio non lasciò l’impresa; elesse, a ingelosire Artabano, Tiridate del medesimo sangue; e a racquistare l’Armenia Mitridate Ibero, accordandolo col fratello Farasmane, che possedeva il loro paese, e tutto il maneggio d’Oriente diede a L. Vitellio. Di costui trovo fama rea per Roma, e memorie sozze, ma resse quelle contrade con antica virtù; tornossene: e la paura di C. Cesare, e la pratica di Claudio lo cangiarono in brutto esempio di servile adulazione1; cederono le qualità prime all’ultime, e scancellò le virtù giovenili con viziosa vecchiezza.

XXXIII. Mitridate persuase Farasmane ad aiutare, con forze o inganni, la sua impresa: e corrotti con molto oro i ministri d’Arsace, l’avvelenarono; e grande oste d’Iberi l’Armenia assalì, e prese la città d’Artassata. A tali avvisi Artabano ordina Ordde l’altro figliuolo alla vendetta: consegnagli gente Parta; mandagli da assoldare stranieri. D’altra banda Farasmane ingrossa d’Albani, solda Sarmati, i cui satrapi, detti sceptruchi, presero a loro usanza presenti e parte da ogni banda. Ma gl’Iberiani, furti di siti, spinsero per lo Caspio a furia i Sarmati in Armenia. Gli aiuti de’ Parti mal potevan congiugnersi, avendo il nimico presi i passi; un

  1. Caligola voleva esser creduto il vago della Luna, e domandò Vitellio: Non l’hai tu veduta meco giacersi? rispose attonito, con gli occhi in terra e bocina tremolante: A voi tali Iddii i dato di potervi l’un l’altro vedere. Seppe far l’arte meglio quel Gemino, che disse di sì, e giurò; e n’ebbe venticinquemila.