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non la trovai piú. Doveva essere stato ferito piú dal suono che dal senso delle parole.

Poi seguirono delle ore di un affanno strano. Dovevo prima di tutto avvisare Augusta di non dire a Valentino ch’io da molte ore non m’ero mosso di casa perché egli altrimenti avrebbe saputo ch’io quella sera non avrei potuto aver visto l’Olivi. Ma come fare: Augusta si trovava certamente nel salone con Valentino ed Antonia. Poi io dovevo quella stessa sera trovare l’Olivi e subito mettermi d’accordo con lui prima ch’egli rivedesse Valentino. Cosí, in piena angoscia, pronto per uscire con indosso il cappello ed il cappotto d’inverno nella casa come al solito per volere di Augusta surriscaldata, rimasi per qualche minuto alla porta del mio studio irresoluto se correre nel salone a chiamare Augusta o andare al Tergesteo ove sapevo di poter ancora trovare l’Olivi che non si staccava dagli affari — in questo simile al padre suo — fino alle nove di sera.

In quella passò Renata la bambinaia di Umbertino. Poteva aiutarmi. La chiamai. Essa alzò i suoi occhi bruni stupita e un po’ spaventata perché era la prima volta che, lontana dal bambino, io le rivolgessi la parola, mentre io anche nella mia agitazione non sapevo non sorprendermi delle sue gambe lunghe ancora un po’ infantili coperte di sole calze di seta.

Fu un po’ difficile di spiegarmi. Volevo ch’ella facesse venire a me Augusta senza che gli altri apprendessero ch’ero io che la chiamavo.

Essa subito comprese. Aveva una voce come spezzata da un suono acuto sforzato ch’era aumentato dal riso che ora le interrompeva la parola. Passavano molte note nella sua voce. Propose: «La signora Augusta mi mandò di qui a cercare i suoi occhiali. Io li trovai e li ho qui ma le dirò che non seppi rintracciarli ed allora è sicuro ch’essa verrà a cercarli essa stessa».

Non ero ben convinto che proprio cosí le cose dovessero svolgersi ma nell’esitazione lasciai che Renata s’allontanasse. Quando capitò Augusta di corsa ammirai molto l’astuzia della piccola servetta.