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s’avvicinò a noi. Era evidentemente messa di festa, molto all’antica, le gonne lunghe, il fazzoletto di colore annodato elegantemente sulla testa. Ma tutto, lei compresa grigia e sdentata, molto sbiadito. Volle baciare la mano ad Augusta. Parlava quasi perfetto il friulano e né io né Augusta comprendemmo niente di quei suoni che uscivano scomposti ora a destra ora a sinistra di quella bocca mancante degli organi che regolano il suono.

L’intervento di Fortunato, il nostro chauffeur rese l’intervista piú lieta. Egli era di quei paesi e disse alla vecchia, in friulano, delle cose che la fecero sganasciare dal ridere. Il riso la costringeva a piegarsi in due. Eccessivo, forse per celare l’imbarazzo che in lei tuttavia persisteva. Augusta le consegnò i doni che aveva portati e Renata la indusse a lasciarci e andare a casa ove c’era un uomo, il fratello, che presto sarebbe ritornato dal lavoro a domandare il suo pasto. La vecchia protestò: Il pasto era già pronto dalla mattina, pur già avviandosi per obbedire alla figliuola.

«Stimo io» rise Fortunato, «la polenta sa aspettare. È il cibo piú paziente del mondo.»

Insomma si capiva che Renata non desiderava noi vedessimo la sua casa e dovemmo rassegnarci e partire senz’averla vista.

Domandai a Fortunato come egli avesse fatta la conoscenza della madre di Renata. Il falsone mi rispose che loro di quei villaggi si conoscevano l’un l’altro come se avessero abitato la stessa città. E invece, poco dopo, fu noto a tutti che lui e Renata facevano all’amore.

Dapprima la cosa ci dispiacque. Ci pareva che implicasse una diminuzione di dignità per Renata. Fortunato era divenuto chauffeur da poco tempo, dopo la morte del povero Hydran un magnifico cavallo fattosi bolso due anni dopo ch’era stato comperato e che, per una falsa bontà, avevamo lasciato esaurirsi fino all’ultimo. Poi, per la grande impressione che ci aveva lasciato la sua morte, non ne volemmo piú saperne di cavalli e per il nostro grande affetto per un cavallo rifiutammo ogni contatto con la razza ch’ebbe tanta