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che abbiamo in casa. Non ci era abituato agl’impedimenti perché la nostra casa è meno semplice del bosco.

Un’altra cosa cui non era abituato era di trattenersi dallo spargere degli olezzi per la casa. Ne ricevette di nerbate! E l’imbecille non arrivava a capire di che cosa si trattasse! Bastonato perché aveva scelto a luogo di sua comodità un cantuccio della stanza s’accomodò la prossima volta nel centro. Fu peggio! Finí che non osava neppure piú all’aperto quando il padrone lo vedeva. «E come fai tu?» mi domandò molto impensierito. «Se continua cosí, per quanto bene mi trovi con voi, dovrò fuggire perché da me è una cosa molto imperiosa.» Gli spiegai che il padrone non voleva ciò nella sua tana, ma che fuori anzi gli piaceva. Non volle credermi. Un giorno avvenne che pur dovette accomodarsi all’aperto in presenza del padrone. Non poté farne a meno! Quando dovette cedere alla necessità, nell’accomodarsi allungò il collo per sorvegliare piú da vicino il padrone e si tenne pronto alla fuga ciò che rappresenta uno sforzo difficile quando si è inchiodati su un posto.

Poi, accertatosi della legge, mi domandò delle spiegazioni ed il curioso è che io non seppi dargliele. Ero certo che nella tana non si doveva (ed Argo non lo avrebbe fatto giammai) e fuori era permesso. Poi — poco prima di partire — il mio amico che ci pensava spesso indovinò: Nella tana gli olezzi non erano necessari perché nello spazio ristretto è ben facile dirigersi e trovare senza il loro soccorso. Gli olezzi non erano utili che all’aperto e il mio padrone sorvegliava che non andassero sprecati.


IX


La grande differenza fra l’uomo e il cane è che il primo non sa il piacere delle busse che cessano. Un giorno si camminava per la nostra strada quando una donna che aveva accompagnato fino ad allora il mio padrone si mise a percoterlo con l’ombrello. Io digrignai i denti e volevo azzannarla. Ma il padrone me lo impedí e, tenendomi per il collare, si mise