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Tempo già fu, signor, ch’ora non è,
     Nè quel che è ito, ritrattar si può,
All’or quando io non l’ebbi, te ne die’,
     Ed or che l’aggio, più non te ne do.
Duro ti fia assai pensar fra te,
     Chi son, chi fui: già l’ebbi, ed or non l’ho;
Ma per la strada dimandando va
     Che quella te ne dia, ch’ora non l’ha.

Qui pose fine l’ingeniosa Isabella al suo enimma; e perchè era di gran misterio pieno, diversamente l’interpretaro. Ma non vi fu niuno, che pienamente l’intendesse. Il che veggendo, Isabella, con lieto e chiaro viso sorridendo, disse: Con licenzia vostra, signori, isponeremo l’enimma recitato da noi; il quale non dimostra altro, salvo che un’innamorata donna non maritata, che era sottoposta al suo amante; ma poi che si maritò, non più conobbe l’amante. Onde persuadevagli che, andando per strada, richiedesse l’amore da quelle che non avevano marito. Piacque molto a ciascaduno la dotta isposizione del sottil enimma, e tutti universalmente la comendaro. Già il crestuto gallo denunziava il chiaro giorno, quando i magnifici signori presero licenzia dalla Signora, la quale con faccia allegra li pregò che nella seguente sera al bel ridotto tornassero; e tutti farlo graziosamente risposero.



il fine della notte duodecima.