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Un’antico israelita, non avrebbe posta tanta prontezza a servire il suo Dio. Nulla avrebbe potuto persuaderlo, che mentre cantavasi in coro egli poteva starsene assorto in meditazioni; o sedere, colmo com’era da tante infermità, prima che la preghiera, che da assai prolungavasi, fosse compiuta. Qual contrasto fra lui ed il suo collega, il diacono Abram! un’omicciuolo attilato, inquieto, affaccendato, con capelli ruvidi e ritti come una fiamma, con un’abito abbottonato, che gli si attagliava alla vita, e col salterio alla mano! Veniva a sedere presso il vecchio, e là i suoi occhi vivaci e grigi si volgevano dapprima da un lato della larga navata, poi dall’altro; infine si fissavano sulla galleria. Lo si sarebbe creduto un uomo tratto alla chiesa da’ suoi affari, tanto si teneva responsabile di tutto ciò che vi accaddeva.

L’attività, che costui spiegava in tal modo nel suo ministero, era di troppo grande ostacolo alle distrazioni che noi ci procuravamo, noi gioventù svegliata. Posti in fila su basse sedie rimpetto alla cattedra, noi ad ogni tratto procuravamo d’ingannar la noja dell’interminabile sermone, con ogni mezzo possibile: per esempio trasformando fazzoletti in conigli traendoci destramente di tasca l’un l’altro pomi o confetti, che ci davano per dono di festa: o tirando l’orecchia a qualche onesto cane, venuto all’assemblea, e che faceva inutili tentativi per spingersi nella grande navata.

Ma sventura ai nostri clandestini solazzi, sventura a noi, se scorgevamo la testa d’Abram spingersi a sghembo al dissopra dell’alto seggio de’ diaconi! Tosto, pomi, confetti e fazzoletti scomparivano; le nostre