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molla, che cadendo sugli alari li facevano risuonare, mettendo in moto due o tre pezzi di legno, e questo rapido movimento, simile al giuoco di racchette, strascinava tutto ciò che eravi intorno, capace di produrre del romore.

Nell’istessa guisa era certo ch’io perdeva quanto mi capitava fra le mani o ciò che portava con me. Se alla mattina mi pavoneggiava d’avere una blouse nuova, era sicuro di cader disteso, andando alla scuola se pur non m’accadeva di peggio nel ritornarmene a casa. Mi si mandava per un servigio, non mancava mai di perdere cammin facendo il denaro, o l’oggetto comperato nel ritorno. In tali circostanze la madre mia per consolarmi era usa ripetermi, essere una fortuna che l’orecchie fossero rimaste ancora attaccate alla testa, altrimenti le avrei del pari perdute. In somma io era un tema consueto alle esortazioni ed ai rimbrotti non pure di mio padre e di mia madre, ma sibbene delle mie zie, de’ miei cugini fino alla terza o quarta generazione. Essi non si ristavano dall’ammonizioni e dal farmi assaporare i loro rimproveri e consigli con una litania di lamenti e di morale.

Tutto ciò sarebbe ito per lo meglio, se monna natura non m’avesse dotato d’una dose assai inutile ed incomoda di sensibilità. Quel dono, pari a quello di un orecchio musicale, non era di certo aggradevole: poichè in questo mondo, novantanove sopra cento non sanno distinguere un disaccordo da un suono armonioso. Ora, quanto più io dava occasione agli altri di rimprovero, meno io m’abituava ad essere rimbrottato, sì bene che tali cattivi trattamenti mi esasperavano