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adunque già avvanzarsi l’ora della catastrofe e non sentendo abbastanza forza per mirar di fronte la rovina e la miseria, fu al vino, di cui non seppe mai intieramente vietarsi l’uso, che domandò un tristo ed effimero conforto a’ casi suoi. In quell’epoca andò a passar qualche mese in una città lontana separandosi di sua volontà dalla moglie e dai figli; poichè più si avvicinava la sua rovina, più sentiva bisogno di ravvivare artificialmente il vigore vacillante del suo spirito e de suoi nervi affievoliti. Alla fine il colpo terribile che da qualche tempo paventava, lo colpì. L’ingente fortuna che sua moglie gli aveva recata in dote non esisteva più che in memoria.

Dopo tanta sventura, dalla lontana città, ove erasi rifuggito, indirizzò alla moglie, troppo fidente, la seguente lettera:

“Augusta, tutto è finito fra noi. Non aspettatevi più nulla dal marito vostro. Non prestate più fede alle mie promesse, poichè è per sempre perduto per voi e per sè stesso. Augusta, la nostra fortuna, od a meglio dire la vostra è al tutto scomparsa. Io la gittai da cieco nel golfo della speculazione. Ma sta qui tutta la sventura? No, no Augusta, avvi ancora qualche cosa di peggio: io mi sono perduto! perduto di corpo e di anima, e tanto irrevocabilmente come lo è la nostra fortuna. Altra fiata eravi in me dell’energia, della salute, della fermezza, della risoluzione; oggi tutto è scomparso. Sì, sì ho ceduto, e cedo ogni giorno a ciò che è ad un tempo mio carnefice e mio temporario rifugio contro lo schifoso spettro della miseria. Vi rammentate voi l’ora orribile, in cui foste fatta con-