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politiche. Ma questo non vollero le triste sorti dei tempi, che uccidevano gli ingegni, che consumavano in lunghe angoscie le più energiche vite: questo impedì l’italiana miseria, resa più amara dal dispotismo di Francia, che congiurava con le polizie di tutti i paesi a perseguitare gli uomini di libero cuore.

Mentre il Santarosa se ne viveva quieto e inoffensivo a Parigi, i suoi nemici lo andarono a tormentare anche nella innocente sua solitudine.

La fazione che in Francia pervenne al governo col ministro Villèle, mentre studiavasi di uccidere tutte le libertà interne, stringeva vieppiù le sue alleanze coi despoti esterni: e d’allora in poi le polizie di Piemonte e di Francia si strinsero amicamente la mano, e fecero il loro piano di persecuzione contro i rifugiati. Parecchi Piemontesi si erano ricoverati a Parigi, ove viveano senza intromettersi in faccende politiche. La polizia sapeva o doveva sapere che nessun pericolo veniva alla Francia dalla loro presenza: ma essa, dalle paure della polizia di Torino e dell’Austria era eccitata a infierire, e quindi, invece di contentarsi a sorvegliare, perseguitò apertamente.

Il Santarosa fu avvertito che lo cercavano, che lo avrebbero arrestato, e forse restituito al Piemonte, ove era sicuro che lo manderebbero al patibolo. Perciò studiò di sottrarsi alle ricerche: e il suo amico Cousin gli procurò un rifugio in una casa di campagna ad Auteil, vicino a Parigi. Ivi vissero qualche tempo ambedue, consolandosi a vicenda dell’avversa fortuna, e intrattenendosi in ragionamenti di filosofia e di politica. Era il marzo del 1822, quando un giorno il Cousin fu talmente oppresso dal male, che il Santarosa lo scongiurò ad andare a cercare qualche soccorso a Parigi. Quegli cedè e partì subito. L’altro, pensoso più dell’amico che di sè