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libro secondo 143


Ma intanto premeva l’animo di Barbarossa il desiderio di ottener presto la città. Non poteva batterla colle macchine: perchè non era intorno levatura di sito ove collocarle. Era ad un trar di arco da una delle porte della città una torre fatta di viva pietra, detta Arco Romano, da’ quattro archi che la reggevano, i quali si tenevano per opera dei Romani. Vi avevano i Milanesi locati a guardia un quaranta fanti, i quali speculavano dall’alto i moti dell’esercito nemico e ne rendevano consapevole la città. Federigo vi appuntò sopra gli occhi, riputandola assai opportuna a piantarvi macchine da lanciare, e di là tempestare la città. Recita Ricobaldo da Ferrara, che come mosse l’Imperadore a quella espugnazione, saltassero fuori i Milanesi con Uberto Conte di Sezza, ed appiccassero una accanita battaglia coi Tedeschi intorno alla torre «nella quale battaglia la moltitudine de’ Barbari premea addosso ai Milanesi, i quali per propria salute e libertà disperatamente combatteano, vedendo sopra le mura le mogli, i figli suoi, che a’ stupri degli Alemanni, ed a servitù della crudele nazione avevano a soggiacere»1. Otto dì si tennero forti quei quaranta pedoni, che difendevano la rocca, nè pareva che con arieti o altre batterie, potesse espugnarsi, cadendovi intorno molti degli assalitori. Non potendosi espugnare di fuori, pensarono i Tedeschi diroccarla al di dentro, e vi si misero con pochissimo giudizio. Si dettero a martellare sotto agli archi con questo intendimento, cioè non essere offesi dagli assediati, stando al coverto, e ad un tempo di far crollare la rocca, sottraendole le fondamenta. Fin qui arrivarono col loro ragionare; alla finale conseguenza di rimanere vivi vivi sepolti, e di fallire allo scopo di quella espugnazione, o non sapevano, o non volevano andare. Come i rinchiusi s’intesero sotto tutto quel martellare e battere a rovina, s’accorsero tosto del tedesco intendimento, e quelli che non avevano ceduto alla furia degli arieti e delle

  1. S. R. I. t. VI. p. 365.