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310 LIBRO DECIMO — 1822.


«Ho esposto altre volte per quali onesti motivi condussi a Monteforte il reggimento; ma quegli argomenti vaglian per me, non per questi uffiziali (segnandoli col guardo e col dito) che sento con maraviglia chiamar ribelli e spergiuri. Sarieno al certo e spergiuri e ribelli, se disobbedivano al mio comando. Io innanzi di muovere non consultai col reggimento; ma, come è costume negli eserciti, feci sonare a partenza; e questi uffiziali e soldati, obbedienti come ogni altra volta, mi seguitarono. Giunti noi a Monteforte, se io comandava di combattere le schiere del Morelli, il mio reggimento le combatteva; ma io comandai di unirsi ad esse, e tutti si unirono per obbedienza ed esempio. Dirò anzi cosa verissima: io che non poteva palesare ad ognuno le oneste cagioni di quelle mosse, e che di tutto conosceva l’avversione alle novità di stato e la fede al re, colle cose che dissi e colle ordinanze del marciare o del fermarci intesi a far credere che si andasse ad espugnare il campo di Monteforte; nè rivelai le intenzioni vere se non in mezzo a quel campo, quando era l’opera irrevocabile. Strano giudizio è ora questo! Siamo rei nella stessa causa, e qui seduti insieme sulle scranne del pericolo, io perchè ne’ fatti gravissimi di quei tempi operai a mio senno, e costoro perchè non operarono col senno proprio; per me dunque è delitto la libertà delle azioni, ed è delitto per essi non avere agito liberamente; la cieca obbedienza era debito a me, e il non averla avuta mi è colpa; la cieca obbedienza non è merito a loro, è delitto. Pensate, o giudici, alla natura di questa causa, di stato per me solo, di disciplina per gli altri del reggimento. Fareste cosa giustissima (quando mai fosse delitto di maestà quel movimento) punir me colpevole, salvar costoro innocenti, e ricercare un mio soldato che disertò nel cammino per castigarlo secondo le ordinanze della milizia. Ripeterò in breve il mio concetto: tutti innocenti, o reo per tutti sol io.»

Durò il dibattimento più che tre mesi, parlarono a difesa gli avvocati animosamente, come non fosse causa di maestà in tempi pericolosi e feroci, La sentenza fu data da sette giudici; tre furono per la libertà degli accusati, però che non costava di colpa nelle rapportate azioni o si trovava rimessa dal perdono del re; e gli altri quattro ne condannavano 30 di morte, 13 di ergastolo o galera. Letta la sentenza, da eseguirsi tra poche ore, i condannati a morire furono condotti in loco sacro per gli ultimi conforti di religione.

Era tra loro il colonnello Tupputi, chiaro nell’armi, al quale si era promessa sposa la marchesa Mesuraca, di fresca età, di gentil persona, nobile, ricca. Ella poi che udì la condanna andò sollecita per dimandar grazie alte principessa Floridia moglie del re. Il cor-