Pagina:Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825 II.pdf/173


LIBRO OTTAVO — 1815. 169

erano i sensi: pace, concordia, oblio delle passate vicende; vi traluceva la modesta confessione de’ proprii torti; parlavasi di leggi fondamentali dello stato, di libertà civile, di formali guarentige; e così vi stava adombrata la costituzione senza profferirsene il nome. Erano confermati gl’impieghi militari, mantenuti i civili; conservati i codici del decennio e gli ordinamenti di pubblica economia. Non dunque altrui dolore scortava il re al trono antico, e mille speranze di bene destavansi negli onesti.

Furono ministri il marchese Circello veterano della monarchia assoluta, indotto scolare di moglie indotta; Il cavalier Medici estimato di fine ingegno, già due volte tenuto in carcere come partigiano di libertà nel regno, di monarchia nella repubblica, uomo perciò di fama pregiata, ma varia; il marchese Tommasi, nuovo in Napoli perchè ne uscì giovanetto, raccomandato dall’elogio ch’ei serisse del Filangieri. De’ tre ministri, Circello abborriva colle idee nuove il decennio francese; gli altri due, meno avversi, ma presuntuosi assai più, non tenevano in pregio le nostre cose. E tutti, re, ministri, consiglieri, prima marciti nell’ozio e nella servitù di Sicilia, poi travagliati dalle pratiche di libertà della siciliana costituzione dell’anno 12, ed infine scacciati di magistratura e spatriati o confinati, non avevano seguita la rivoluzione di Napoli nelle leggi ed instituzioni; sapevano di lei solamente le congiure e le condanne, credevano peggiorato il regno. Riguardavano Napoleone ed i re nuovi come usurpatori, le opere del decennio come delitti, gli operatori come rei: un governo di dieci anni riconosciuto in Europa, consolidato da codici, ordini di stato e bene pubblico, era chiamato occupazione militare. I fogli di Messina e di Casalanza non dunque da persuasione, ma da politica o necessità erano dettati; i nostri impieghi, le acquistate facoltà, ii viver nostro, non erano già nostri diritti, ma doni di regale clemenza.

IV. Il telegrafo segnò la partenza del re da Messina, ed allora la regina Murat sciolse dal porto di Napoli, prese i figli a Gaeta, e seguì l’odioso cammino di Trieste. Il vascello dov’era imbarcata s’incontrò all’altro che menava in Napoli il re Ferdinando, e l’ammiraglio apprestando i consueti omaggi disse alla Murat (sotto specie di bontà per dileggio) che non prendesse spavento del tiro del cannone, non essendo che a salva per festeggiare l’incontro del re di Napoli. E colei, che aveva animo ed uso regio, rispose, non essere ai Bonaparte nuovo nè ingrato quel romore. La nemica fortuna crucciava in tutti i modi la caduta famiglia: Gioacchino vagava in mare sopra fragil naviglio, a ventura più che a disegno, Carolina, tenuta per alcuni giorni nel porto, vide le feste della sua sventura, tollerò la scostumata plebaglia che sopra piccole barche si avvicinava al suo legno per cantare canzoni d’ingiuria, ed alfine