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La calata a Palermo 171

sulle mura a sinistra; si arrestavano al crocicchio, e subito si mettevano a sbarrarsi la via alle spalle. Di lì minacciava la cavalleria che moveva dalla chiesetta di San Giovanni Decollato. Ma Faustino Tanara da Parma, con un plotone della sua Compagnia, e il sacerdote siciliano Antonio Rotolo, con una grossa squadra di Picciotti, tennero quella cavalleria in rispetto.

Ora, a passar quel crocicchio faceva caldo. Dal mare lo spazzava la mitraglia delle fregate, vi grandinavano le palle da Sant’Antonino. Ma bisognava passarlo, che se no, chi sa quanta forza di nemici poteva tornarvi, appena si fossero rimessi dal primo sgomento. E vi era già Garibaldi col suo Stato Maggiore. Raggiava. Forse non sapeva ancora che tra il Ponte dell’Ammiraglio e quel crocicchio, in sì breve tratto, erano caduti Tuköry, Benedetto ed Enrico Cairoli feriti gravemente. Ben vedeva Bixio tempestar a cavallo su e giù ferito anch’egli, rimproverando, ingiuriando quasi perchè non s’era già presa tutta la città, e sfogando la sua furia contro di uno che aveva osato dirgli che si guardasse che sanguinava dal petto. Egli s’era già levato da sè il proiettile. E molti in quel breve tratto erano i morti. Giaceva sul Ponte il dottor La Russa da Monte Erice; giaceva presso il ponte Stanislao Lamensa. La morte lo aveva fermato lì, senza misericordia per i suoi dieci anni di ergastolo, nè per i suoi figliuoli che lo aspettavano in Calabria dal 1849. Sotto il Ponte, fra parecchi altri amici e nemici, giaceva Giovanni Garibaldi, popolano genovese, morto di fuoco e di ferro. Placido Fabris da Povegliano, giovane tanto bello che i compagni d’Università lo chiamavano Febo, giaceva per morto con tutta traverso al petto la daga-