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Quando salii sulla diligenza, il conduttore parlava con l’ostessa, di me evidentemente, poiché mi guardavano di sfuggita. Strane parole entravano di sovente nella loro conversazione. Le tradussi con l’aiuto del mio dizionario poliglotta e la mia inquietudine si accrebbe. Queste parole erano «ordog» — satana; «pokel» — inferno; «stregòica» — strega; «vrolek» — e vlkoslak» che ambedue significano la stessa cosa, l’uno in slovacco e l’altro in serbo: lupo o vampiro; (bisognerà che m’informi dal conte circa queste superstizioni).

Quando la diligenza s’avviò, i contadini che s’erano radunati sul limitare dell’osteria fecero il segno della croce, e puntarono due dita nella mia direzione. Uno de’ miei compagni di viaggio mi disse che volevano preservarmi dal malocchio. Tutte quelle ridicolaggini avevano finito con l’impressionarmi.

Scordai presto la mia inquietudine alla vista del meraviglioso paesaggio che mi s’offriva agli occhi. Vallate verdeggianti, fitte foreste, piccoli boschi; qua e là belle fattorie, circondate da orti pieni d’alberi in fiore e che promettono un bel raccolto. Mi sarei volentieri fermato ad ammirare quel magnifico scenario ma il conduttore guidava i cavalli al trotto; pareva aver una gran fretta di arrivare al Passo del Borgo. La strada era tanto cattiva che noi eravamo terribilmente sballottati.

Verso sera, c’inoltrammo in una gola; a destra e a sinistra i Carpazi si tingevano di turchino e di porpora sulle cime, e di verde e di bruno nei burroni. In lontananza, si scorgevano