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calmo dopo quello sforzo senza precedenti che avrebbe accettato di salire ancora ove altre scuote si fossero offerte alla sua audacia e al suo orgoglio.

Adesso egli aveva drizzato la prora del velivolo verso est. Voleva attraversare la cima in tutta la sua lunghezza come per una presa di possesso, descrivere intorno alla vetta domata il cerchio di corona che egli si attribuiva, per la conseguita vittoria, legittimamente.

Poi, avrebbe pensato a scendere.

Lo scopo del viaggio era raggiunto ma la mèta era ancora lontana.

Guardò la carta mentre il velivolo compiva il volo incoronatore; per raggiungere Evolena, a mezzo della Valle d’Hérens, bisognava drizzare la prora della macchina verso nord-nord-ovest.

La corrente era propizia.

Noris se ne accorse subito non appena ebbe messo la macchina nella direzione del ghiacciaio di Zmutt.

— Addio, Cervino! — disse forte, con un accento di tenerezza e di orgoglio che solo il vento raccolse.

Adesso, il paesaggio mutava.

Scomparsa o quasi la roccia che disegnava in possenti rilievi neri chiazzati qua e là di bianco la forma e l’asprezza dei monti sul versante italiano della catena alpina formidabile, la visione non abbracciava qui che un candore uniforme di ghiacci: picchi altissimi ancora si susseguivano che obbligavano l’aviatore a tenersi ancora a un’altezza di oltre quattromila metri, ma i picchi apparivano collegati l’uno all’altro in una uniformità di bianco che dava l’immagine di un unico immenso ghiacciaio dai confini senza orizzonte.

Oltre il ghiacciaio di Zmutt, tre vette apparivano allo sguardo di Noris che quantunque distanti l’una dall’altra sembravano ancora la continuazione di Stockjè, la Punta di Zinal e, più erta di tutte, la Dent Blanche.

Superata questa, la parte più aspra del viag-