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Rise sonoramente.

La signora Ersilia si voltò.

— Ridi alle mie spalle!

— Sì, poichè mi volti le medesime; ma a spese mie.

Antonietta ripigliò:

— Se avessi genio, nulla potrebbe trattenermi. Mi trattiene soltanto la coscienza della mia mediocrità.

— E una fissazione.

— Oh! zio, tu sai benissimo che è la verità. Me l’hai detto troppe volte. Ti ricordi quando recitai l’anno scorso in quella serata di beneficenza? Non fosti tu il primo a dirmi che ero una cagna, che non avevo nessuna attitudine? E avevi ragione; gli altri mi adulavano. E quando studiavo la musica, quando cantavo, quando mi provai a scrivere; ti ricordi?... Ti sento ancora ridere del mio canto; dei miei esercizi di piano, e dei miei versi... La mania dei Valmeroni: l’arte! E nessun ingegno. Avevi ragione; ora lo riconosco. E siccome spero almeno di non essere pazza, ho rinunciato a tutte le mie velleità, a tutte!... — Ella parlava con calma, ma la sua voce profondamente triste rivelava un arcano dolore.

— Hai fatto bene — rispose l’avvocato serio. — Speriamo che un marito ti guarisca anche dalla malinconia.

La fanciulla scrollò il capo e non parlò più. Anche il Pagliardi ammutolì.