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nell’ingranaggio | 283 |
— Le racconterò a casa; ora bisogna che ce ne andiamo.
Svestì in fretta il costume e si mise il sue abito di seta grigia, la pelliccia e il cappello a larghe tese.
Nell’atrio dovette fermarsi a salutare i più ostinati ammiratori, mentre due facchini e il portaceste — suo padre — la seguivano coi mazzi, che furono collocati nella vettura.
Poco dopo erano a casa, nel salottino tepente e profumato, dove la servetta svizzera, col suo grembiulino bianco, serviva il the e alla sua padroncina un biglietto scritto col lapis. Era zia Caterina che si scusava di non i essere andata in teatro, per la gran paura di trovarsi presente a un fiasco, e domandava pronte notizie.
L’inglese rideva, ascoltava, gustava l’eccellente the si guardava intorno, almanaccando sulla posizione della giovane, leggermente combattuta fra i suoi entusiasmi romantici e l’influenza indistruttibile delle idee sociali. Chi aveva dato tutto quel lusso alla povera istitutrice? Non certo il teatro, dove non aveva fatto che esordire!
Gilda a sua volta era imbarazzata, indovinando una parte dei pensieri della signora. Avrebbe fatto meglio a dirle tutto prima.... Ma doveva proprio in dirle tutto?... E il pensiero di fingere, ai dissimulare almeno una parte della verità, si presentava spontaneamente al suo spirito.
— Sicchè, questo romanzo?... domandò Mistress Thionny, non temendosi più, quando la servetta si fu ritirata.
— Si tratta di un signore, mi pare? domandò