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che è la vita, e perciò vivi non furono. Per essere vivi, dovevano mettersi per quel passo: morire. Errarono invece irresoluti nel fioco lume della selva selvaggia, come ora corrono senza effetto nel fioco lume del vestibolo. La selva aveva il passo, per il quale potevano trovar la morte che è vita; il vestibolo anch’esso ha un passo, per il quale essi non saprebbero trovare se non quella morte che è la morte totale, dell’anima. Ma nè per quello vollero mettersi, quand’erano corporalmente vivi, e così non vissero mai, perchè non morirono della morte che è vita; nè per questo possono, per quanto vogliano. Anch’essi hanno un desiderio che eternamente è dato loro per lutto; quello di morire della seconda morte. Ma è un desio senza speme, anche il loro. Non furono mai vivi, non sono nemmen proprio morti; e corrono e gridano e si disperano in eterno in quel vestibolo che assomiglia alla selva in tutto, fuor che in questo, che nella selva il passo è morte che è vita vera e nel vestibolo il passo è morte che è vera morte; e fin che si è forma d’ossa e di polpe quel varco là si può, volendo, varcare; ma poi che si è ombra e putredine, quest’altro no, non si può varcare nemmen volendo.


III.


Ma se si vede ancora lo dolce lome, sì, quel passo, che è vera morte, si può passare col medesimo effetto di chi passa la selva, cioè di vivere la vera vita. E come? L’ho detto. Il varco dell’Acheronte conserva la sua natura: il varco dell’Acheronte è morte sì per chi è vivo e sì per chi è morto; ma