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Sonetti del 1846 345


     E li tammùrri cór farajjoletto?1
E le tromme che ssòneno a scorregge?
Ce vò deppiù pp’addimostrà l’affetto!?

     Ma pperò, ffa er dolore meno amaro
Er penzà che pp’er papa che s’elegge
Sce so’ ttutti Grigori ar piantinaro!2

Note
  1. Col ferraiolino: coperti, cioè, di un velo nero.
  2. Piantonaia, vivaio.

Per gustar questo sonetto, che non sarebbe indegno del Belli, giova rammentare che il Governo pontifìcio, a ogni morte di papa, imponeva un lutto ufficialo, non solamenle a’ suoi impiegati, ma anche a tutti i sudditi, sospendendo per molti giorni ogni pubblico divertimento (senza credersi obbligato per questo a compensar dei danni gl’impresari teatrali), e facendo sonare a morto tntte le campane dello Stato. Sicché, quando sul più bello del carnevale del 1829 morì Leone XII, i Romani, non potendo divertirsi altrimenti, sfogarono la stizza con questi epigrammi:

     Tre dispetti ci hai fatto, o Padre santo:
Accettare il papato, viver tanto.
Morir di carneval per esser pianto.

     Se morivi ne’ dì quaresimali,
Leon, che in vita tanto mal ci festi,
A retaggio comun lasciato avresti
Il piacer di goder due carnevali.

Il Papa. Cfr. la nota 10 del sonetto: Le commediole, 25 magg. 37. Il lutto. Ma, propriamente, lo sciamanno era il distintivo che dovevano portare gli Ebrei. Cfr. la nota 3 del sonetto: Una smilordaria. ecc., 17 genn. 35. Il giornale ufficiale (Diario di Roma); chiamato popolarmente Cràcas, Cracàsse e anche Càcas, dal nome del suo primo editore. Cfr. la nota 5 del sonetto: L’uffizzio ecc., 17 febb. 33. E il Teatro Pallacorda (oggi Metastasio) che ha taciuto? — Far mosca o moschiera: far silenzio, tacere. Ma moschiera per mosca si dice solo in senso traslato come qui, non sempre. Al gioco del pallone, che allora era all’Anfiteatro Corèa.

L’ANIMA DE PAPA GRIGORIO.1

     Stese appena le scianche2 er zor Grigorio,
Che l’anima jj’usci dar peparone,3
E senza tocca manco er Purgatorio,
Anno der Paradiso in der portone. —

     Ah4 Pietro! — Oh! m’arillegro e me ne grorio.
Opri tu, ch’hai le chiave e ssei er padrone. —
Eccheme,5 e ffamme strada ar rifettorio.6
Be’? opri! — Ah, Pietro mio, nun jje la fòne! —

     Va’ là, ariprova. — Gnente! — Ar buscio drento
C’è cquarche cosa? — Gnente! — Hai bbe’ sgrullato?7
Sine: e nun z’òpre! — Dàlle qua un momento. —

  1. Questo sonetto divenne popolarissimo in grazia della trovata. Ma, come forma, è una porcheria; e coloro (son tanti anche tra i Romani!) che hanno potuto crederlo roba del Belli, si vede che pigliano facilmente il princisbecco per oro. Cfr. la nota 6 del sonetto: L’anima ecc., 15 genn. 35
  2. Cianche: zanche, gambe.
  3. Ho già avvertito più volte che il naso di Gregorio era molto grosso e adunco.
  4. Esclamazione vocativa che tiene il luogo di o, e che si pronunzia molto aperta.
  5. Eccomi, cioè: "eccomi pronto ad aprire.„
  6. Gregorio era stato frate, e tutti dicevano che gli piaceva di mangiar bene e ber meglio.
  7. "Sgrullà vale "scuotere, sbattere.„ Si sgrulleno i panni impolverati, i tovaglioli, ecc., e così le chiavi femmine, per farne uscire quel che potesse essersi introdotto nel cannello.