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cclxx Prefazione


che possieda anche la fecondità prodigiosa; ma non pesca le sue impressioni nelle opere di lui, bensì le riceve dalla vita reale in cui vive e che in tante e tante cose non è più quella de’ tempi del Belli. Vedete, per esempio, che fior di partito ha saputo cavare dalla nova usanza di andar vendendo i giornali per le strade:

ER SERVITORE A SPASSO.

     A me? me pare d’ave vinto un terno
De nu’ sta più a servì quel’assassino
De l’avvocato. ’Na vita d’inferno
Da méttecese a letto ’gnitantino.


    manesca; Roma, 18S3, — Giovagnoli, Prefaz. alla 3a ediz. de’ Sonetti del Marini; Roma, 1886.)
    Ora, io ho riletto attentamente la loro polemica, e non ho nulla da aggiungere e nulla da togliere al mio giudizio; per quanto la cortesia adoperata verso di me dal Giovagnoli mi metterebbe addosso una gran voglia di dargli ragione. Ma come potrei dargliela, se egli parte dal presupposto che sia io che abbia inventato il rigore grammaticale e lessicale del dialetto romanesco; e, contro tutte le dichiarazioni e le proteste fatte dal Belli nell’Introduzione e in cento note, crede che il Belli non ci pensasse neppure a uniformarsi a codesto rigore? (Pag. iv.) Come potrei dargliela, se egli asserisce che io ho trovato “otto o dieci„ costruzioni sbagliate “sopra cento sonetti„ del Marini (pag. v-vi), mentre in realtà io le trovai ne’ soli primi quattro? Come potrei dargliela, se arriva perfino ad affermare che il quelo per quello (V. il Glossario), usato dal Ferretti, è “uno sproposito d’ortografia da prendersi con le molle?„ (Pag. X.) Basta questa sola affermazione a provare che il Giovagnoli conosce il romanesco anche meno del Marini. E, infatti, di tutti gli errori sintattici o lessicali ch’egli crede d’avere scoperto nel Belli e nel Ferretti (lasciando anche stare che, a ogni modo, non giustificherebbero quelli del Marini), non ce n’è neanche uno che sia vero. Due soli sarebbero veri: quelli, cioè, notati ne’ sonetti: La prima bbinidizzione papale e La guittarìa (pag. viii-ix); ma, a farlo apposta, il primo di codesti sonetti non è del Belli (Cfr. vol. VI, pag. 348-49), e il secondo è, sì, del Belli (ibid., pag. 54), ma il verso difettoso, censurato anche dal Sabatini (pag. 20), non è suo, ma dell’edizione Salviucci. E al Sabatini che censura (pag. 12) anche due troncamenti usati dal Belli: cucchier (Da soverchià er cucchier d’una Potenza) e segretar (In ne l’uscì ddar Zegretar-de-Stato), dico che sono, in certi casi, comunissimi anche oggi, come è comunissimo l’altro di Madòn (la Madòn de Monti, la Madòn de la Neve, ecc.); e il Belli