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edipo
1395— Or odi
Ciò ch’io t’ingiungo, e far ti prego. A quella
Che là dentro sì giace, ergi la tomba.
Pietoso ufficio al sangue tuo dovuto
Eseguirai così. Poi fra sue mura
1400Questa patria città fa che me vivo
Non tenga più. Lascia che i giorni io tragga
Su quel mio Citeron, cui padre e madre
A me vivente disegnâr sepolcro;
Sì ch’io possa morir dov’essi estinto
1405Voleanmi. So che nè malor, nè risco
Verun m’ha domo, e non da morte allora
Sottratto fui, che per serbarmi a qualche
Più terribile fin; ma non mi cale:
Nostra ventura ovunque va, sen vada. —
1410Tu poi, Creonte, de’ miei maschj figli
Non t’assumer pensier: uomini sono;
Quindi inopia di vitto in qual sia loco
Non soffriran giammai. Ma le infelici,
Le mie misere figlie, a cui la mensa
1415Mai senza me non s’apponeva, e sempre
Ogni mio cibo dividea con esse;
A te le raccomando. Ah! lascia ch’io
Con mie mani or le tocchi, e i nostri mali
Ne pianga insiem. Deh mel concedi, o prence,
1420O generoso! Nel toccarle, ancora
Di possederle mi parrà, siccome
Quando io vedea.... ma per gli dei, non odo
Non odo io forse pianger le mie figlie?
Creonte forse impietosito i miei