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Gavina intanto, seguita da Paska che gridava spaventata, salì al primo piano, nella camera dove Francesco curava i malati, e senza parlare, senza domandare aiuto, lasciò cadere le vesti insanguinate e si lavò e si fasciò la ferita. Tremava e batteva i denti, ancora sopraffatta da un terrore angoscioso, ma non rispondeva alle domande di Paska, e fosse anche stata in pericolo di morte avrebbe taciuto egualmente, come quei feriti che una complicità inconfessabile unisce al feritore, obbligandoli a non rivelarne il nome. Quando non vide più scorrere il sangue si calmò. Scrisse alcune parole su un modulo di telegramma, poi aiutata da Paska si coricò sul lettuccio coperto d’incerata, collocato accanto alla finestra, e soltanto allora parve accorgersi della disperazione della vecchia serva.

— Ma taci! — le disse irritata. — Sono caduta, stupida, non lo vedi? Aiutami, piuttosto: fa scaldare un po’ d’acqua, dammi un po’ di cognac, levami le scarpe. Va, chiamami la zia Itria, va! Tu non sei buona a niente! Vattene!

Quest’ordine aumentò la disperazione di Paska.