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che ella riusciva quasi sempre a vincersi. E se qualche volta cedeva, «dopo» provava un senso di vergogna e di disprezzo contro sè stessa.

Un giorno arrivò una seconda lettera scritta da Luca a nome di sua madre: fra le altre notizie — il tempo era orribile, l’ex-frate era morto, Paska aveva l’influenza — c’erano quelle di ziu Sorighe: egli si teneva sempre nascosto, e alcuni continuavano ad accusarlo, altri a difenderlo: la situazione era immutata.

Gavina diventò pallida, e rimase a lungo immobile e cupa davanti alla finestra. Francesco dormiva. Ella vedeva attraverso i vetri il cielo d’un azzurro intenso, sparso qua e là di macchie argentee, e nonostante la sua inquietudine ricordava i meriggi primaverili del suo orto, le ore in cui aspettava il postino; e le sembrava di essere stata felice allora, tanto adesso soffriva. Piano piano s’avvicinò al letto e stette a guardare Francesco, quasi lo vedesse per la prima volta. Egli era pallido, con le palpebre un po’ livide e la bocca socchiusa. Un’espressione di stanchezza e di tristezza gli stirava i lineamenti, e senza i capelli nerissimi e lucidi, ora che gli occhi sparivano sotto le palpebre stanche, il suo volto si sarebbe detto quello di un vecchio. Ella ebbe pietà di lui. Eppure bisognava svegliarlo dal suo sogno. Ma, come scosso dalla presenza di lei egli si svegliò, le sorrise e il suo volto