Pagina:Settembrini, Luigi – Ricordanze della mia vita, Vol. II, 1934 – BEIC 1926650.djvu/68


XIII

(I compagni di cella)

(continuazione).

Santo Stefano, 22 marzo (1854).

Che ho fatto io questi dodici giorni? Niente se non sofferire e nell’anima stanca, e nel corpo stanchissimo. Ogni cosa mi è grave, mi fa dolore, mi spossa: vorrei non pensare, e credo che la morte non debba essere quella mala cosa che tutti la tengono, perché in essa non v’è il pensiero, non v’è la coscienza di essere, non v’è il sentimento del dolore. La morte fa paura; e a me fa paura la vita, e troverei un po’ di quiete nel nulla donde sono uscito, e dove ritornerò dopo di aver valicato un mare di dolori e di miserie senza numero e senza modo. Io fo come Giobbe, mi siedo sul mio letamaio, scopro le mie piaghe e le riguardo, vedo i vermi e la pudredine che mi rodono, e nell’amarezza del dolore involvo sententiam meam sermonibus imperiiis. Io non so che mi dico, e spesso il dolore mi fa la lingua bugiarda. Ma seguitiamo a dipingere i compagni della mia cella.

Il terzo è un omiciattolino di civile condizione, nato in un paesetto presso Napoli, e carcerato fin da quando era giovinotto di sedici anni. Bruno, acceso, butterato, facile ad infiammarsi come un solfanello, giuocatore, bevitore, pronto e veloce come una vespa, con certo buon senno, con alquanto garbo di maniere, ed ora per l’etá e i patimenti meno stizzoso. Uccise un prepotente che, essendo congiunto del ministro Delcarretto, perseguitava lui e suo padre: e fu condannato a venticinque anni di ferri: in carcere fece il camorrista, uccise un altro, ed ebbe altra pena di ventidue anni di ferri nel presidio. Due pene cumulate che oltrepassano i trent’anni si espiano nell’ergastolo: egli è qui da ventidue anni: e non