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coscienza letteraria di renato serra xxxiii

nient’altro che del ricordo e di impressioni lontane, e non è che la somma agevolezza dello stile e dei pensieri in che è risolta la lunga lettura, la gioia e, spesso, il fastidio di quella lettura. Il suo discorso è netto, serrato, armato; e pare che non faccia se non parlare, così, per caso, per pura incidenza, staccando degli appunti dal libro della memoria, come si fa dei foglietti d’un taccuino. Mostra di badare soltanto a certe rifiniture della pagina, di stare attento solo a certe pause, allo spicco di certe parole che lui sa, a certe sapientissime cadenze; e in realtà la sua mente è sveglia e pronta come non mai, alle cose che dice, non solo a come dice. Padrone assoluto di sè, dei suoi mezzi e delle verità conquistate, porta un'aria di scherzo in ciò che scrive, che è un segno di quella somma sua eleganza posta a vincere senza voler stravincere; chè gli basta vincere senza parere, così, con inesorabile levità, o inesorabilità lieve di mano. Quella vittoriosa levità di mano che porta a perfezione certe pitture prospettiche a contrasto, su due toni nettamente opposti, e il lettore non se n’avvede, in bianco e in nero; come in quei due capitoli di proemio, Il momento letterario: apparenze, Il momento letterario: particolari, con le abbaglianti e illusive «apparenze», e la modestia appena decente dei «particolari». Anche le vetrine dei librai, presentate coi colori più lieti, quasi un glorioso emblema, a un voltar di pagina non sono più quelle, si spogliano, si disadornano. Perchè, anche un nulla, come la vetrina d'un libraio, sa offrire al Serra il tema per una variazione apparentemente sbadata, in realtà tutta volta a un fine critico. E ricordate in quel suo discorso antico su Carducci e Croce, da quanto lontano era partito. Appunto