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188 scritti di renato serra


Intento alla cosa che aveva da dire, il Boccaccio la diceva, secondo la facoltà sua, chiara e netta e viva quanto poteva più.

Così nascevano quei «fiori» del suo parlare, cari ai nostri vecchi; così anche le battute del dialogo, riportate per chiarezza in forma diretta, con tanto scrupolo da inframmettere a ognuna il «disse Calandrino, disse allora Bruno», e simili, riuscivano poi, nella loro schiettezza, quasi formate ed espresse al vivo sulla bocca di ciascuno interlocutore; e ogni persona ne prendeva consistenza drammatica.

Aggiungiamo che se in principio il Boccaccio fa un racconto, questo poi in realtà è scritto da lui. La disposizione festevole e un po’ superficiale dell’uditorio si realizza nell’interesse preciso e squisito dello scrittore, signore dell’arte sua e di tutte le piacevolezze come delle musiche e della potenza della parola.

Il caso di Calandrino non è più soltanto lo specchio di una brigata che di nuovi uomini e cari motti piglia diletto, ma riesce anche la espressione di uno dei più felici e snelli e armoniosi ingegni che mai sieno nati.

I suoi fini possono essere, a giudizio del volgo, assai facili; per esempio, di discorrer bene. Ma egli li aggiunge con una perfezione che vale qualunque bellezza.

Prendete qual pezzo vogliate.

«Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero, non bisogna che io vi dimostri, che assai l’avete di sopra udito; e perciò più avanti facendomi, dico, che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze, che in dote aveva avuto dalla moglie, del quale tra l’altre cose che su vi ricoglieva, n’aveva ogni anno un porco, et era sua