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172 scritti di renato serra

fonti e di sviluppi e di motivi, e finiva per mettere insieme così quei suoi studi su quel da Sassoferrato sul Pulci e via via che, insieme con la bellissima Biblioteca della Poesia Popolare Italiana, cominciata in Firenze, restano anche oggi fatica utile e savia.

Ma l’importante non era in questo; e neanche nei versi che il Pascoli buttava giù allora, più per esercizio che per espressione propria, così trascurato e spensierato come pareva: siamo al tempo del sonetto di Radicofani.

L’importante era quella salvatichezza, quel bisogno di essere schietti, naturali, veri, quell’istinto umile di scampare lontano dalle eccellenti cose ammirate e sognate, di farsi piccini, coi piccoli, con gli umili, coi poeti popolari e con le cose povere di casa, con le famigliari cose della campagna nativa.

Questo istinto vago era in tutti e due; si svolgeva, credo, nella loro amicizia con un dialogo, in cui ognuno portava all’altro, qualche cosa, che senza essere in discordia con gli ideali accettati dal maestro, anzi riprendendo alcuna parte di essi e su quella insistendo, era pur nuova; e doveva alcuna volta riuscire, almeno per uno di loro, a una improvvisa rivelazione di natura poetica nuova.

Gli echi di questo sviluppo nei versi di Severino sono stati notati più volte, anche con troppa curiosità.

Ma è poi da notare che in questa stagione, fra l’’80 e l’86, press’a poco, dei due il più pascoliano si sarebbe detto che era Severino, in certi momenti; massime sul principio. Gli è che costui aveva, con vantaggio forse sull’amico, l’uso e la sottilità del lavoro dei versi: anche se aveva poco