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Sedevano, più tardi, i due fidanzati, Loreta Leoni e Carletto Valli, nel largo vano del verone, i cui cristalli erano schiusi, nella già tiepida sera del cadente aprile: il bel giovane, biondo ed esile, dal viso chiaro e dagli occhi castani, un po’ femineo, nella sua grazia giovanile, come Loreta era un po’ virile, nella sua imperiosa beltà, aveva portato alla fanciulla, un gran fascio di odorose mammole, fra le loro rotonde fogliette di un verde oscuro: e Loreta ne aveva passato un mazzetto alla cintura e ne teneva un fascio fra le mani, appressandolo, ogni tanto, alla faccia, immergendovela tutta, a sentirne, a sorbirne, la freschezza, e il profumo. Poi, fissando negli occhi il suo biondo fidanzato, gli porgeva quel fascio di fiori, ove ella aveva poggiato le labbra schiuse e le sue nari frementi: ed egli stesso, sogguardandola, imitando il gesto di lei, s’impregnava di quella fragranza e di quella freschezza. Dopo, pareva che i loro sguardi non si potessero disgiungere. Un penetrante silenzio era attorno alla villa Leoni, isolata in fondo, al folto giardino di via Abruzzi: ogni tanto giungeva, cresceva, si perdeva, lontano, il rombo sordo di un automobile. I due, spesso, tacevano insieme, guardandosi, come se, insieme, pensassero le medesime cose o diverse, e se le comunicassero, senza parole, con Io sguardo. La sera, così, trascorreva: mentre laggiù, nell’angolo del salotto, presso un largo tavolo, sotto la luce di un’alta lampada velata di una seta color oro pallido. Carolina Leoni, chinava la testa, i cui bei fini capelli biondi s’incanutivano, chinava i suoi teneri occhi un po’ smarriti, color pervinca, sovra le pagine di un libro. Talvolta, ella, levando il capo, si volgeva ai due fidanzati, e li fissava, un istante

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