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la mano tagliata. 159


Ampio, austero, tutto in legno scolpito, lo studio era illuminato da un vasto finestrone che dava sopra una serra, dove erano coltivati i fiori più rari; intorno intorno, vi erano delle grandi librerie di quercia zeppe di libri, di grossi libri per lo più legati in pergamena, con certe cifre strane, in rosso o in azzurro. La grande tavola da scrivere era coperta di libri e di carte; un enorme calamaio di cristallo di rocca era aperto, sulla tavola. Del resto, nessun istrumento medico, nessuna fiala, niente, proprio niente che rammentasse la professione che Marcus Henner esercitava. Solo, contro il finestrone, vi era un seggiolone di cuoio nero, messo in tale luce che chi vi si sedeva, la riceveva tutta sul volto. Viceversa, Marcus Henner sedeva presso il tavolino, in penombra.

In quel giorno, giunto nella stanza da studio, egli si tolse i guanti e la pelliccia, gittandoli sopra un divano: e si lasciò cadere sopra una sedia, come sfinito. Ma anche questo sfinimento durò poco. Marcus Henner si rialzò e, andando verso il muro, toccò un campanello.

Nella parete di contro, si schiuse una porta segreta che era perfettamente mascherata e apparve un uomo, vestito di nero, con una cravatta bianca, un tipo fra il notaio e il maggiordomo. Era magro, alto, allampanato: due fedine bianche bianche, accuratissime, incorniciavano il suo viso. Gli occhietti grigi avevano una grave vivacità. Stette ritto in mezzo alla camera, senza parlare, aspettando che Marcus Henner gli dirigesse la parola. Costui, ora, stava seduto al suo solito posto e pensava.

— Lewis, che vi è di nuovo? — disse, infine.

— Interrogatemi, Eccellenza; e vi dirò.

— Lettere?

— Varie.

— Da dove?