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La Conquista di Roma 453

Sangiorgio aveva la chiave, sebbene non ci fosse mai venuto di notte: per le scale oscure egli accese un fiammifero, don Silvio veniva di dietro, sempre fumando. Nell’anticamera l’antica lampada a olio, perpetua, gettava delle ombre tragiche sul nero cofano di nozze, di legno scolpito, sulle sedie dalla spalliera alta; nel salotto dove mai lume era stato acceso, Sangiorgio si trovò imbarazzato, girava col fiammifero in mano, non sapendo come far la luce; alla fine trovò un sottile candeliere di bronzo, pompeiano, in cui tre candele rosee erano infitte, e le accese. Si sedette, dirimpetto a don Silvio, già seduto; costui aveva buttato il sigaro sul pianerottolo, lasciato il cappello in anticamera e teneva il capo abbassato sul petto: di nuovo, la lente pendeva sul soprabito, don Silvio era in uno dei suoi momenti di raccoglimento.

«Io aspetto, don Silvio,» disse Sangiorgio, frenando a stento l’impazienza della sua voce.

«Pensavo, Sangiorgio,» cominciò quietamente il ministro, «quanto il desiderio di ammazzarmi debba essere violento in voi.»

«Molto violento.»

«Da oggi, poi, deve essere irresistibile.»