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La Conquista di Roma 281

canore di don Mario Tasca, come le spavalderie intempestive di Niccolò Ferro. Ma il vecchio presidente leggeva una lettera, placidamente, come se si trovasse nella pace del suo gabinetto e non nel tumulto dell’aula.

La parola fu data all’onorevole Sangiorgio e subito l’assemblea si chetò; il presidente del consiglio alzò la testa canuta, e guardò fisamente il deputato di Basilicata, come se volesse leggergli nell’anima: il ministro dell’interno respirò, sollevato, immaginando che quanto nè lui, nè il presidente avevano detto, lo avrebbe detto Sangiorgio. Era intelligente, amico sicuro del ministero, non poteva che rimettere le cose al loro posto.

Invece, dalla prima frase crudele, l’onorevole Sangiorgio cadde addosso brutalmente alla politica interna, con un furore concentrato. Avevano detto troppo poco don Mario Tasca e Niccolò Ferro, come attacco e come difesa: le cose erano diversamente gravi, da un anno a questa parte; il più profondo disordine regnava nella politica interna, non vi era più nessuna guida, non vi era più freno, i pubblici funzionari agivano a casaccio, o non agivano punto, non avendo or-

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