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72 per monaca

tela bianca, tirando a sé il cestino del lavoro, dove marcava di rosso, cifra e numero, tutti i capi di biancheria che le sue amiche le passavano, dopo averli finiti. E faceva il suo lavoro con una certa lentezza solenne, con un’aria di signorilità, rassegnata a un lavoro umile, con una disinvoltura affettata di spirito superiore che si piega per bontà d’animo, marcava la biancheria con tanta dignità di gesto, che pareva sempre considerasse la immensa felicità di quei bimbi, che nella loro infanzia potevano già avere la fortuna d’indossare una gonnelluccia bianca, marcata da lei, Maria Gullì-Pausania, la cui casa veniva subito dopo quella del Re, a Palermo, che possedeva in famiglia due principati, tre marchesati, quattro miniere di zolfo e una intiera provincia di aranci e di limoni. Ella inarcò le ciglia quando vide entrare, quasi correndo, Elfrida Kapnist, l’ungherese dai grandi occhi neri, smorti e selvaggi, dai capelli bruni e ricciuti che nessun pettine arrivava a domare, dal viso pallidamente acceso, allungato come quello di una capra, dal paltoncino di uno strano color giallastro, dal vestito troppo corto innanzi che lasciava vedere i piedini sottili, sdutti. Elfrida fu accolta con una gradazione di sorrisi più o meno amabili. Eva stessa era un po’ imbarazzata, nel riceverla: di Elfrida si diceva un grandissimo male e un grandissimo bene. Era una zingara scappata dalla tribù, — nossignore, era la figlia di un console, nobile, ma povera, — era una stracciona, — aveva una quantità di terre confiscate, in Ungheria — era figlia di una cavallerizza, — sua madre, era una Radziwill, — ella si faceva regalare i vestiti dai giovanotti — la duchessa