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telegrafi dello stato 21


assonnate di quelle che avevano troppo poco dormito, le faccie smorte di quelle colpite dal freddo, le faccie scialbe di quelle malaticcie; e da tutte si diffondeva un senso di pacata rassegnazione, di noia indifferente, di apatia quasi serena. Cominciavano la loro giornata di lavoro, senza ridere, tutte occupate meccanicamente in quei primi apparecchi: curve sulle macchine, chi svitava il coltellino d’acciaio che imprime i segni, chi metteva un rotolo nuovo di carta, chi bagnava d’inchiostro, con un pennello, il cuscinettino girante, chi provava la elasticità del tasto. Poi, nella quiete mattinale, principiò il ticchettìo dei tasti sulle incudinette, e ogni tanto, queste frasi suonavano monotonamente:

— Direttrice, Caserta non risponde.

— Direttrice, si va bene con Aquila.

— Direttrice, al solito, Genova chiede un rinforzo di pila.

— Direttrice, Benevento vuol sapere l’ora precisa.

— Direttrice, Otranto ha un dispaccio di quattrocento parole, in inglese.

— Direttrice, Salerno dice che vi è guasto sulla linea di Potenza. —

Il sole d’inverno, ora, entrava in ufficio. Nessuna levava la testa, a guardarne, sui vetri, la striscia sottile.