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cammino, col tuo amore crescente, invadente. Non volevo, non volevo, tu sai che io non volevo. Puoi dirlo?

— Sì, posso dirlo: tu non volevi — ripetè Andrea, come un’eco.

— Rendimi questa giustizia. Ho combattuto, palmo a palmo, con te che mi amavi, con l’amore che mi voleva. Ho vegliato, ho pianto, ho chiesto pietà al cielo: muto il cielo, muto il mondo, inesorabile il destino, implacabile statua di bronzo, senza viscere, che le lagrime umane non arriveranno mai a commuovere. È la fatalità che lo ha voluto.

— La fatalità, la fatalità — ripetè Andrea, convinto.

— Ora, io mi sento pura di colpa, quantunque più volte la mia delicata coscienza mi abbia fatto dire che sono un essere malvagio. Con la fatalità non si combatte: noi abbiamo chinato il capo e abbiamo amato. O Andrea, non dovrei dirtelo, ma l’ora è suprema, e qui le anime si debbono rivelare nude di ogni artificio: io ti ho tutto sagrificato...

— Tu sei un angelo...

— No, sono una misera donna che ama e che intende il sacrificio. Pace, tranquillità, doveri coniugali, doveri di amicizia, serenità di coscienza, amore mistico, tutto mi hai preso. Che mi puoi dare tu in cambio?

— Ahimè! io non posso che amarti — egli disse, desolato della propria miseria.

— L’amore non è tutto, Andrea.

— È tutto per me, Lucia.