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parte quarta 269

verso, in tutti i sensi, vi aveva scritto una trentina di volte: ti amo. Questo, mentre Caterina e Alberto parlavano ancora di Lucia — e gli pareva di aver commesso un grande atto di audacia a scrivere quelle parole sotto gli occhi di quei due. Non aveva finito che Lucia rientrava. Era più nervosa che mai, gli andò vicino, celiò sul suo sonno provinciale, su questa abitudine di uomo già maturo. Non gli mancava più che una partita di tresette la sera, una tabacchiera di rapè, e un fazzoletto di cotone a scacchi rossi e neri. Voleva giuocare alla scopa, con lei, dopo pranzo? E mentre gli altri ridevano, mentre la voce di lei strideva, due o tre volte mise la mano in tasca, come per cavare il fazzoletto: un pezzettino di carta ne spuntò. Allora egli, turbato, mise le dita nel taschino della sottoveste, e mostrò la punta del suo biglietto. L’uno aveva scritto all’altro.

Ma non poterono scambiarsi i due biglietti. Nella sala erano sempre o Caterina, o Alberto, o ambedue. L’uno andava, l’altra tornava: mai un minuto soli. Con le dita nel taschino, senza far mostra di nulla, Andrea aveva piegato il suo biglietto in due, in quattro, in otto; ne aveva fatto una pallottolina microscopica, che teneva in mano, per averla più pronta. Lucia lasciò cadere un gomitolo: Alberto lo raccolse. Andrea domandò il ventaglio a Lucia, ma fu Caterina l’intermediaria che glielo porse. Non era possibile. Quei due guardavano, ingenuamente, francamente, senza sospetto, quindi più temibili. Andrea tremava per Lucia: non per sè che era pronto ad arrischiare tutto. Ogni tanto